V

Ai rischi pesanti sopra indicati non si reagisce però in profondo sostituendo ad essi i rischi impliciti in una storicizzazione di puro tipo sociologico, pur tenendo conto naturalmente di importanti sforzi, già in atto, di superare il puro socialismo e la ricaduta in certa opaca materialità del periodo positivistico, sulla base soprattutto di quella esperienza gramsciana che fu resa tanto piú duttile e articolata dallo stesso fecondo dialogo polemico col Croce, dal rapporto con la tradizione desanctisiana, dalla consonanza con le posizioni del Russo: esperienza gramsciana che è ormai patrimonio di tutti gli storicisti degni di questo nome ed assicura la propria validità anche nel mai dimenticabile rapporto distintivo fra critica politica e critica che Gramsci chiamava estetica[1] e noi potremmo meglio chiamare storico-critica, anche se la stessa critica politica (alla luce di un concetto della politica, e proprio della politica socialista a cui chi scrive aderisce, preoccupata sí della vittoria dei propri scopi, ma fra questi preoccupata della vittoria della autenticità dei valori nuovi, della libera partecipazione ad essi di uomini dotati di autonoma responsabilità) avrà tanto maggiore efficacia quanto piú sarà illuminata da una coscienza storica ed artistica valida.

È evidente lo stimolante, essenziale richiamo che una posizione storicistica di generale ascendenza marxista porta ad un concreto e particolare approfondimento dei nessi fra poesia e storia al di là di forme piú generiche di Geistesgeschichte e di vago culturalismo. Ed esso è in relazione stretta col vasto rinnovamento storiografico di storicismo concreto che, negli studi di storia civile, avvicina ormai da tempo studiosi piú strettamente marxisti e studiosi di impostazione postcrociana, mossi da un revisionismo dello storicismo idealistico che è spesso giunto a conseguenze assai lontane dalla sua base di partenza metodologica.

Ma la critica e storiografia letteraria che si qualificano marxiste (e non sempre a pieno diritto, ché a volte si tratta invece di riprese di vecchio sociologismo positivistico o di appesantimenti piú contenutistici degli schemi storiografici a base civile e politica desanctisiani) portano, nelle loro inclinazioni piú pronunciate, una forte tendenza ad annullare o a ridurre la novità e originalità dei fatti artistici, la forza intimamente dialettica e rivoluzionaria della poesia. Quella forza per cui lo stesso Dante, cantore della Firenze «antica» e di una situazione storicamente superata dallo sviluppo sociale-economico-politico del Comune trecentesco, crea in quel mito, nato dalla nostalgia di una situazione arcaica e conservatrice, un elemento suo di fede umana e poetica che alimenta una realtà nuova, valida poeticamente e, alla fine, portatrice di tensioni e valori alti ed autentici. E il Verga, conservatore in politica e finito nel nazionalismo, collabora alla rivelazione poetico-storica della realtà sociale siciliana piú profondamente di quanto sarebbe avvenuto in forme di arte-propaganda inserita direttamente negli atteggiamenti piú progressivi del tempo.

Ma anche in una posizione consapevole di questi casi sarà sempre insufficiente una storia letteraria che voglia studiare – come dice il Lukács nella sua Breve storia della letteratura tedesca pur cosí efficace e viva (sia chiaro una volta per tutte che le mie osservazioni polemiche mirano ad una prospettiva critica attiva e non escludono l’interesse e il riconoscimento di interesse di tanti degli autori citati) – gli avvenimenti storici sulla base «del loro rispecchiamento nelle opere letterarie e della posizione che queste assumono verso di essi». Che poi lo stesso critico ben coglie il pericolo insito nello studiare gli autori come «rappresentanti anche se cosí medianti del tempo» quando avverte: «Naturalmente ogni scrittore, specie se è veramente grande, è – nella propria creazione – piú ricco e multiforme della tendenza letteraria o sociale che rappresenta. Cosí quando facciamo ricorso a nomi famosi, o semplicemente noti, per lumeggiare certi indirizzi, dobbiamo in ogni caso renderci conto che tale procedimento implica inevitabilmente una certa unilateralità»[2].

Unilateralità che non vale avvertire se non si intenda e non si faccia concretamente valere nella interpretazione storico-critica il fatto fondamentale che non basta studiare i poeti – «specie» se «grandi», ma non solo se grandi, quando hanno un elemento e tensione di poesia – come un dopo almeno ideale rispetto a strutture e tendenze di loro non bisognose, e che una funzione documentaria della letteratura e dell’arte spenge alla fine il loro stesso valore di «vero» documento storico in quanto ne svaluta o non considera la loro peculiarità di esperienza e direzione, la loro forza di interpretazione originale e di sollecitazione dei moti spesso oscuri e fermentanti di una situazione storica, sociale, politica, culturale.

E questa interpretazione sarà anche storicamente effettiva ed autentica e valida se artisticamente orientata, se radicalmente necessaria nella poetica e ispirazione del poeta.

E proprio quando ci si propone – come pure io faccio – la mèta ambiziosa di una storicizzazione integrale, di una genesi storica della poesia, sarà ben da chiarire che tale integralità presuppone essenzialmente l’accertamento integrale che l’opera o la personalità studiata abbia in sé forza e direzione artistica.

Perché altrimenti la desiderata integralità scadrà in un’effettiva parzialità e insufficienza, trascurando il fatto fondamentale che l’arte è parte di storia, e interviene nella storia con una sua forza autentica e non come illustrazione e documento, solo in quanto commuta forze ed esperienze vitali e storiche in tensione artistica e in opere artistiche.

Altrimenti, ripeto, si priverà la storia di un’esperienza e di una forza ad essa essenziali, e per la cui presenza effettiva, non ripetitoria, insieme ad altre forze ed esperienze, essa è veramente storia.

Con ciò non si esclude affatto la pertinenza e la necessità di una interpretazione storica (non solo un inquadramento o un accostamento preliminare che non tocchi una natura misteriosa e mistica dell’arte) dei fatti artistici, e delle personalità poetiche, articolata entro le condizioni della situazione sociale e politica.

Anzi nello studio di poetica come io l’intendo è implicita e comandata una tale disposizione di storicizzazione completa e non solo letteraria. Ma essa rimanda ad una esigenza storico-critica piú profonda e complessa, che presuppone a sua volta una visione della storia riccamente problematica e dialettica anche nei rapporti fra le sue forze ed esperienze effettive.

E nel caso specifico richiede una disposizione storicistica che non sovrapponga una poetica polemica di puri militanti politici (si ricordi la già citata articolazione gramsciana, almeno), richiede un senso vivo delle possibilità diverse della poesia e dei suoi rapporti non univoci e immediati con la realtà storica, dei modi con cui, anche in una posizione politicamente e socialmente reazionaria (e che spesso totalmente tale appare per una diagnosi storica insufficiente), può nascere poesia. Troppo facile (e c’è sempre da diffidare degli schemi troppo facili e facilmente applicabili) è risolvere la storia della letteratura solo in storia di documenti leggibili fuori della loro musica, solo in storia di organizzazioni di cultura e in storia di committenti e di pubblico consumatore, solo in storia di funzioni puramente sociali e politiche dei poeti, o verificare solo la loro posizione di rispecchiamento come si potrebbe fare con delle parafrasi contenutistiche. Anche uno scolaretto può applicare certi schemi di tipo hauseriano senza avere la minima esperienza di poesia e con sommari, manualistici elementi di storia economico-sociale.

E perciò lo storico-critico dovrà avere l’ausilio indispensabile di una conoscenza storica profonda: e mai manualistica, come troppo spesso avviene in casi di conclamato storicismo assoluto che magari poi scambiano il Gravina per un gesuita, e cosí presentano tutta la storia dell’Arcadia come opera dei gesuiti[3]. Per non dire di ricostruzioni tutte politiche che estraggono un elemento – variamente vivo e specifico nella esperienza e situazione di uno scrittore o di una corrente letteraria – e lo rendono arbitrariamente dominante e fondamentale, trascurando i modi con cui quell’elemento poté entrare nella poetica dello scrittore e alimentarne l’impegno personale e storico, come può avvenire solo se esso fu effettivamente commutato e sentito nella esigenza di un’esperienza artistica e non divenuto invece prevaricante e pesante limite della fantasia e del lavoro artistico.

Essenziale allo studio storico-critico è definire concretamente la situazione del poeta nel proprio tempo e nella propria società, e della sua coscienza della propria posizione in quelli, della profondità e qualità diversa del suo impegno nella realtà storica, nel suo accordo e disaccordo con le direzioni vive del tempo concreto in cui vive, nei suoi rapporti con il pubblico e con le direttive culturali della classe e del potere dominante.

Ma tutto ciò sarà da rivedere entro l’effettiva esperienza e poetica dello scrittore, entro l’effettiva tensione poetica che nasce in quell’accordo o disaccordo. E, oltretutto – ciò che dovrebbe essere ovvio, ma che spesso viene realmente dimenticato per insufficienza o tendenziosità –, tutto ciò va valutato nell’accertamento sicuro e non partigiano della sua realtà e configurazione precisa, in una ricostruzione della storia non schematica, non precostituita, anche se inevitabilmente orientata e non qualunquistica.

Infatti occorrerà anzitutto richiedere allo storico letterario, come allo storico tout court – il quale sarà poi sempre storico di un campo specifico –, un senso forte del passato nella sua vera e viva problematicità, nella sua complessa realtà e nella sua natura di nascita del futuro, tanto diverso da uno svolgimento rettilineo e senza pieghe e andirivieni o apparenti o veri che essi siano.

E spesso proprio nelle sue pieghe ed ingorghi si annidano pure problemi effettivi, si instaura tensione culturale e poetica. Per non dire della particolare complessità che la storia letteraria comporta nella dialettica cultura-poesia, per la difficoltà di ridurre a storia di documenti e di fatti, di contenuti giudicabili senza avvertirne e valutarne la novità e originalità artistica, la loro peculiare risoluzione. Ché altro è parlare di genesi storica della poesia e della sua natura umana e storica, contro ogni misticismo estetico e non estetico, altro è negare l’originalità dei suoi compiti e della sua realizzazione. Proprio perché la poesia corrisponde a profonde esigenze umane e storiche e non è un fiore che adorna e conforta la prosaica casa degli uomini, ma è una voce profonda dei loro totali problemi, essa non può venir ridotta a ripetizione pura e semplice di quei problemi, quali ugualmente essi sarebbero senza la voce poetica.

Richiamo ben doveroso di fronte ad interpretazioni che deducono il giudizio critico su fenomeni letterari e personalità artistiche dalla semplice e immediata verifica dell’accordo o disaccordo di quelle con il moto progressivo, o ritenuto tale, della storia misurata nelle sue dimensioni ideologico politiche e sociali.

Sarà cosí giusto e produttivo individuare il crescente disaccordo dell’Alfieri con la linea illuministica e sarà possibile vedere in questo un moto di reazione a elementi di progresso e di sfocio rivoluzionario che l’Alfieri nega e combatte passando dalle posizioni della Tirannide a quella degli ultimi scritti fra Misogallo, satire e commedie[4]. Ma quale frutto se ne può e se ne deve ricavare anche sul piano storico?

Basterà vedere gli elementi involutivi o non si dovrà anche e piú fortemente considerare che in quel distacco l’Alfieri dava pur voce ad elementi preromantici collegati ad aspetti di crisi dell’illuminismo (le cui istanze immortali si sarebbero svolte con nuova forza in vari aspetti della civiltà romantica democratica e nell’arricchimento portato dalla dialettica con tutte le sue implicazioni rivoluzionarie) e forieri di elementi romantici che non si possono assolutamente scartare dalla valutazione della storia umana?

E d’altra parte come chiudere gli occhi di fronte al fatto che, mentre quegli elementi preromantici pertengono ad un diagramma storico piú vero di quanto non sarebbe quello di un puro svolgimento rettilineo illuminismo-romanticismo nei loro aspetti piú congeniali, la stessa grande poesia tragica dell’Alfieri – la quale oltre tutto stimolò, non per equivoco, un piú profondo senso della libertà e della poesia – nacque proprio dalla crisi sofferta di quella reazione sino alle sue conseguenze esistenziali?

Sicché una volta delineato correttamente il disaccordo dell’Alfieri col processo illuministico – e l’accordo con gli elementi preromantici di cui fu potente portatore – resta pur sempre allo storico-critico da intendere e la partecipazione dell’Alfieri a un moto del tempo piú segreto e fermentante (e dunque la sua attualità storica) e il raccordo effettivo fra tali posizioni e la sua grande poesia, sorta in anni in cui la fede illuministica veniva già cedendo in lui a un senso doloroso e complesso della situazione umana.

Esempio allargabile a tutta l’interpretazione dell’Alfieri (già il suo illuminismo era venato da piú intimi moti di scontentezza e di spirito catastrofico) e utile a ribadire due punti: la necessità di valutare il «tempo» di un poeta nella sua vera realtà complessa, la necessità di valutare il rapporto del poeta col tempo all’interno delle possibilità poetiche che se ne generano in lui.

Ciò ribadisce e la genesi storica della poesia e l’impossibilità di valutar la poesia dall’esterno del suo nesso storico-personale.

Cosí come (per accennare ad aspetti di uno storicismo ingenuo diverso dal fronte con cui si discute) proprio nei riguardi dell’Alfieri (e poi del Foscolo e del Leopardi) si è affacciata a volte l’idea di una valutazione limitativa perché la sua e loro ignoranza o non considerazione del kantismo, dell’idealismo tedesco e della dialettica li avrebbe chiusi in una arretrata mentalità settecentesca e avrebbe per esempio privato il Foscolo di una possibilità di unità dei Sepolcri perché la sua fede idealistica (ammesso che cosí possa chiamarsi) avrebbe trovato una frattura insanabile nell’urto con il suo credo materialistico[5]. Ora, a parte ogni altra considerazione sulla diversa situazione dei tre poeti, questa costatazione va poi interpretata assai diversamente, perché alla fine quella chiusura e mancanza di vie piú sicure e moderne culturalmente (che in altre situazioni potevano diventare produttive e feconde di poesia, come nel caso di Hölderlin in cui la collaborazione giovanile con Hegel si associa al potente valore poetico del Werden nella sua poetica) si commutava nello stimolo ad uno scavo piú profondo nella situazione umana, nel dramma dell’esistenza e della sensibilità, e dava una risonanza tanto piú profonda alla loro poesia delle «illusioni».

Del resto, anche nei casi in cui l’indicazione di evoluzione o di involuzione di un poeta alla luce della sua posizione nel processo politico, sociale, ideologico del tempo potrà essere accertata effettivamente, occorrerà pur sempre considerar come non automatico e immediato ed uguale il rapporto fra tale evoluzione o involuzione rispetto alla storia, e l’involuzione o evoluzione poetica dello scrittore, fare una equazione perfetta fra arco ideologico, politico, sociale e arco poetico. Non perché tale problema e rapporto siano surrettizi ed inutili, ché anzi un tipo di critica dinamica e storica quale io propongo a tale problema è sempre portata necessariamente, ma perché anche tale problema va calcolato in relazione concreta con le effettive possibilità poetiche che in tale rapporto si instaurano e con i modi della poetica dello scrittore.

Certo, nello svolgimento dell’attività poetica di un Metastasio[6] sarà facile indicare una fase in cui, pur nei suoi limiti di prudenza e di umanistica e idillica posizione, egli si accordò con il tempo arcadico-razionalistico, ebbe un vivo e fecondo contatto con un pubblico concreto, tradusse nei suoi melodrammi esigenze di una precisa società animata e bisognosa di dialogo e vita teatrale; ed egli anzi ne espresse entro la propria poetica delle peripezie sentimentali e del lieto fine, nei modi della sua poesia patetica e razionalmente distinta, le istanze di vita socievole, di gentil patetismo, di sviluppo di saggezza e avventura sentimentale, di favola e verità. Mentre poi, dopo i melodrammi piú suoi e realizzati dei primi anni viennesi, si delinea un rapido declino delle possibilità poetiche e una incapacità crescente a seguire lo svolgimento del razionalismo in illuminismo, un suo isolamento sempre maggiore dallo sviluppo delle tendenze vive della sua epoca, una vita sempre piú solitaria ed astratta e priva di succhi storici e del caldo contatto con un pubblico vasto e vario, qual era stato quello degli anni napoletani e romani, l’inasprirsi di una concezione conservatrice e reazionaria, il prevalere sempre piú forte di un’aulica concezione di sterile eroismo e di aristocratico altruismo di «anime belle».

Ciò che ricondurrà a confermare la scarsa complessità del poeta e della sua poetica, incapaci di profondi sviluppi e di rinnovamenti entro la storia, ed anche a meglio comprendere il terreno di forza della limitata esperienza metastasiana, la sua produttiva adesione agli ideali della conclusa epoca arcadico-razionalistica di primo Settecento, la fecondità dell’accordo del poeta col suo tempo all’altezza della Didone e fino ai primissimi anni viennesi, quando la stessa nostalgia di amici, abitudini, paesi lontani e cari, si commuta in bisogno e forza di rappresentazione di sentimenti lievitati nella prima vitale esperienza.

Ma se prendiamo invece il caso del Parini[7] e del suo ultimo svolgimento sarà errore, e proprio errore storico-critico e non errore del semplice «gusto» e di una lettura di gusto, equiparare una minor tensione dell’impegno combattivo delle prime Odi e delle prime parti del Giorno, dell’entusiasmo illuministico e riformatore del poeta – del resto ben diversi anch’essi dalle posizioni di un propagandista e di un collaboratore contenutistico del governo riformatore austriaco e perciò non svalutabili a materiali indifferenti al lavoro di un puro letterato e stilista di ascendenza arcadica –, a una involuzione poetica che smentirebbe il tradizionale omaggio critico alle ultime Odi.

Certo, si deve costatare un maggiore isolamento del poeta nel suo mondo morale e fantastico, nel vagheggiamento di alte figure di «calocagatia», una maggior pacatezza e distanza dai suoi impegni polemici e satirici piú aperti, e un coerente mutarsi della sua poetica, del suo linguaggio da forme piú icastiche, sensuose e frizzanti a forme piú innografiche, piú distese e serene, appoggiate al piú preciso contatto del Parini con il gusto figurativo neoclassico.

Ma sia chiaro anzitutto che questo contatto e svolgimento di gusto neoclassico non si risolve affatto in una adesione passiva alle forme piú illustrative e archeologiche di tanta letteratura neoclassica e corrisponde a un interno bisogno di alleggerimento e rasserenamento dell’animo pariniano e della poesia pariniana legato alla coscienza (non importa se in parte illusoria) di una battaglia sostanzialmente vittoriosa e di una necessità piú di costruzione civile che di polemica. E cosí questo sviluppo (configurabile dall’esterno come involuzione rispetto all’impegno illuministico e adesione all’evasività neoclassica) è tutt’altro che improduttivo poeticamente ed anzi conduce ad uno sviluppo poetico piú alto in cui gli ideali pariniani illuministici di Natura-Ragione, Piacere-Virtú, che sorreggevano il suo stesso impeto e la sua polemica satirica precedenti, si sono approfonditi e meglio disposti a vita poetica, fatti ancor piú persuasi e luminosi, piú personali e universali.

E l’affinamento di sensibilità e di gusto («orecchio ama placato la Musa / e mente arguta e cor gentile») e l’impegno di una poetica meno pungentemente didascalica han ridotto i margini piú sforzati, la ricerca di efficacia pregnante, a volte condotta fino al tour de force di cui parlava la Stäel, senza perdere i frutti delle precedenti esperienze e senza risolversi in una evasività blanda e diafana: come potrebbe sembrare a qualche orecchio duro e a una considerazione storica insufficiente perché incapace di superare l’aspetto documentario delle opere d’arte e di intender di queste il dialettico rapporto con le esigenze di poetica dello scrittore e con tutto ciò che in quella vive di vitale e di personale-storico.

Ugualmente se l’attenzione alla posizione politica del Pascoli[8] servirà a convalidare la profonda falsità della sua poesia politica e storica (arretrata concezione retorica del poeta-vate, debolezza e ambiguità del suo socialismo nazionalistico, incomprensione delle reali condizioni sociali italiane), con un fluire piú rado e frammentario, anche se non privo di punte intense e sottili, un simile studio applicato al Carducci tardo darà risultati piú complessi e diversi.

Infatti, mi pare che non sia assolutamente accettabile l’intera equivalenza di involuzione politica e involuzione poetica[9], che pur si giustifica assai chiaramente per quanto riguarda la poetica di «dovere» e l’eloquenza delle cosiddette grandi odi di Rime e ritmi in rapporto alla perdita di contatto del poeta con le forze piú vive della storia del tempo e al suo nuovo accordo con un preciso settore conservatore della società italiana, con la politica crispina, con il crescere del nazionalismo autoritario e antipopolare. Involuzione verificabile anche in quella componente di spiritualismo senile che sfocia nella vaporosità retorica di Alla chiesa di Polenta.

Ma al critico che guardi, senza lasciarsi piegare da schemi rigidi e tentanti, alla intera realtà della personalità carducciana nel suo ultimo svolgimento, e alla genesi storica della sua poetica e poesia, non sfuggirà una situazione piú complessa.

Sull’avvio di un ripiegamento interiore accentuato dalla stessa posizione ufficiale assunta, e configurato nella proposta di una poetica della «malinconia», l’animo poetico carducciano pur continuava a svolgersi in una direzione di intimità senza enfasi, fra dolente risentimento esistenziale (a cui si legano alcune delle liriche piú alte del Carducci e in un periodo in cui la involuzione politica era già fortemente avviata) e visione fresca e nuova di paesaggi e figure, a cui contribuisce a suo modo, in quel che ha di piú levitante ed enigmatico, la stessa vibrazione piú sommessa e meditativa dello spiritualismo, cosí prevaricante in retorica quando funziona nella direzione della poetica falsamente grandiosa e ufficiale del poeta vistoso e fastidioso dell’età crispina e umbertina.

E proprio in questa specie di sdoppiamento, sulla via piú sensibile e autentica di un riscatto dei suoi moti piú intimi in una direzione assecondata dal meglio delle sue forze ed esperienze artistiche, il Carducci si troverà a collaborare, pur entro limiti storici di tardo romanticismo piú che di decadentismo, a nuove forme di tensione poetica, a elementi vivi della crisi poetica postromantica.

Si potrà infine concludere questa esemplificazione di casi – che implicano un costante riferimento a problemi sollecitati piú fortemente dalle prese di posizione della critica che si professa marxista e dal cui ampliamento sulla base della discussione e della esperienza ci si può attendere comunque piú che dalle posizioni dello stilismo puro – con quello del nostro maggiore poeta contemporaneo, Eugenio Montale, e del suo ultimo, per ora, sviluppo in poesie come L’anguilla, Il gallo cedrone, Piccolo testamento, Il sogno di un prigioniero.

Questo ultimo sviluppo è stato configurato a volte nel segno di una involuzione politica e poetica[10]: ma come accettare questa prospettiva quando si misura la forza autentica, direi l’alto e singolare leopardismo di queste poesie e quando si risale ad esse dal tormento di una sofferenza personale-storica? Che noi possiamo, come militanti politici (e sino ad un certo punto, quando si guardi a un socialismo che rafforza la dignità dell’uomo e significa una liberazione non solo sociale, ma, insieme e perciò, interiore dell’uomo, una trasformazione delle strutture non solo economche-sociali), considerare una diminuzione dell’attualità storica di Montale rispetto al significato della sua solitudine e della sua antiretorica di fronte al fascismo, ma che, piú profondamente, come storici-critici dobbiamo pur sentire nella sua genuina necessità entro le condizioni dello svolgimento della poetica montaliana, del suo pessimismo vitale, dell’affiorare di un piú esplicito sentimento di fraternità e di dignità virile (e la stessa maggiore chiarezza non è un abbandono del suo linguaggio piú nuovo ma un corrispettivo di approfondimento della sua visione e della destinazione di essa privata e pubblica). Mentre anche come uomini politici, vivi con proprie mète ed ideali concreti nel mondo attuale, non possiamo disconoscere l’arricchimento che queste poesie portano alla coscienza del mondo attuale, in un progressismo piú profondo di ogni piú alta strutturazione sociale-economica di tipo chiuso e autoritario.

Insomma, non solo la poesia va accettata comunque sorga, se è voce profonda di diverse tensioni autentiche della storia, non solo va valutata la sua storicità fuori del suo documentarismo immediato, non solo essa va intesa a seconda della sua poetica, ma sarà insufficiente e parziale ogni storicizzazione che non sia orientata a compiti critici, che non articoli la storia di un’epoca o di una personalità artistica nel loro particolare piano e direzione di tensione e di elaborazione entro un cerchio organico e duttile di nessi e rapporti e condizioni (non di cause e determinazioni ed equivalenze immediate) rivissute in prospettiva di poetica e in situazioni concrete, varie, propizie al nascere di «quella» poesia e al suo affermarsi, e giudicate tali solo dall’interno della tensione poetica che effettivamente (e quando) si instaura e si svolge in possibilità e realtà di arte.

Ciò che va combattuto è il frivolo, il prodotto snobistico e di moda, privo di moralità artistica e storica, non ciò che è vivo, anche se i suoi temi non sono i nostri: il che non è qualunquismo, ma sano senso del valore e dell’accrescimento della nostra storia. E cosí, di fronte a un recente libro del Salinari, Miti e coscienze del decadentismo italiano[11], si dovrà dire, accettandone l’interesse vivo e stimolante, che esso è una storia difettiva perché manca dei nessi piú profondi fra il decadentismo e quella crisi dell’uomo moderno da cui non solo nasce poesia, ma si pronunciano problemi che tuttora in parte viviamo e soffriamo e che ci hanno arricchito nella nostra consapevolezza delle radici complesse dell’agire umano, ci hanno arricchito di metodi artistici e di concreti risultati poetici.

La prospettiva civile, che è poi in gran parte un’epitome assai viva di interpretazioni, già affermate in campo storico, dell’epoca crispina e giolittiana, va sí messa in valore ed azione in rapporto ai miti pascoliani, dannunziani, fogazzariani, e alla crisi pirandelliana, ma essa non è la sola dimensione di quella storia (a cui la prospettiva nazionale offre concretezza, ma anche limiti), e le soluzioni di arte dei decadenti risultano in realtà senza intero rapporto con quella dimensione se poi la poesia di D’Annunzio è solo frutto di una tregua del superuomo (con l’ipervalutazione significativa di una mediocre poesia come Meriggio) o se il capolavoro (accettato poi senza vera valutazione) del Fogazzaro, Piccolo mondo antico, è tale solo perché il Fogazzaro si libera nel passato e nel ricordo.

La lotta contro il «malgrado» (che dà il suo risultato piú positivo nel caso di Pirandello, almeno nella nascita della sua problematica) si risolve, in effetti, piú spesso in una nuova versione del «malgrado». Cosí non si ottiene una nuova valutazione e acquisizione di poesia e non si esaurisce la complessità storico-artistica del decadentismo rivista in forma troppo manichea e negativa, atta forse a rinforzare la nostra pragmatica antipatia per l’estetismo, per la retorica che ha sorretto, potentemente, la nascita del fascismo, ma non atta a chiarirci poi gli elementi positivi della poesia, che pur c’è, di D’Annunzio e di Pascoli (il caso Fogazzaro è troppo minore e poteva essere affrontato con maggiore rigore) e la storica validità del decadentismo nei confronti della nuova sensibilità e delle nuove tecniche liriche e narrative, senza di cui non avremmo avuto neppure gran parte della letteratura attuale. Troppo semplice e di per sé improduttiva criticamente è l’equazione fra storia civile e storia letteraria, il che non implica affatto che quel rapporto e quella attenzione siano di per sé inutili e fuorvianti: devono essere collocate nella loro giusta direzione e non mancar mai di un autentico interesse per la poesia quando e dove si afferma.

Fautore della genesi storica della poesia, e non solo di un inquadramento preambolare e concluso in sé, credo che essa debba essere piú profondamente intesa e fatta valere nella sua funzione di spiegazione concreta della natura e dei modi di una poesia o di un movimento letterario, senza cadere nel documentarismo, nell’utilizzazione della poesia e della letteratura a semplice illustrazione della storia.

E alla fine se il compito del critico si esaurisse nel delineare la storia civile nella letteratura, meglio sarebbe forse lasciare questo compito agli storici politici tout court, mentre se la storia letteraria fosse solo storia stilistica meglio sarebbe lasciarla, come essi vorrebbero, in mano ai puri filologi e ai puri tecnici delle forme stilistiche e agli storici della lingua. Che è proprio quello che non vorranno mai concedere quelli che come me credono nella funzione della critica, alla sua complessità richiedente filologia, tecnica, storia, ma in funzione di un’operazione piú complessa e articolata e funzionale al giudizio e all’interpretazione, impossibili senza iniziativa e spirito critico.

Alla stessa maniera, nella interpretazione storico-critica di un poeta, è per me importante – e necessario in reazione a concezioni di purismo estetico, di impressionismo, di esame solo stilistico e alla separazione rigida fra l’opera e la personalità viva che la crea – lo studio della stessa esperienza vitale dello scrittore. Ed anzi esso è forse uno dei temi piú da me appoggiati ed esercitati specie nella mia attività piú recente: si pensi al saggio su Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino, del ’54, che è parso ad alcuni segnare una svolta del mio metodo e forse un cedimento o un’attenuazione del mio studio di poetica, mentre ne era un rafforzamento e una integrazione necessaria.

Ma sarà chiaro che questo rapporto vita-poesia non può essere una pura equivalenza che scarti poi l’inferenza della fantasia e ricada nel biografismo e nello psicologismo, come può essere recentemente avvenuto in un’infelice biografia di Pavese[12].

La conoscenza della vita di uno scrittore deve essere configurata come Erlebnis, con ciò che questa parola comporta di rivissuto e di cosciente, che il poeta rivede entro l’orientamento della sua poetica ai fini della sua poesia, come elemento vivo della sua storia dinamica: entro cui la poesia trova le sue occasioni, le sue situazioni concrete, si presenta, nel suo accordo dialettico con la personalità intera del poeta, in un ritmo di svolgimento storico, ha un suo farsi (poëta nascitur et fit), una sua genesi non miracolistica e medianica anche quando cosí può sembrare all’autore dominato dalla forza urgente dei suoi fantasmi poetici, tutti nutriti invece del suo stesso sangue, della sua cultura, della sua esperienza, della sua vita personale e storica.

Mi pare cosí che per una simile posizione si possa parlare di uno storicismo piú profondo, non difettivo: se la mèta è l’intera ricostruzione dell’esperienza poetica e l’affermazione della storicità di essa e della sua storica collaborazione autentica alla storia.

E mi pare che cosí la mia stessa nozione di poetica si sia venuta sempre piú approfondendo e concretando nelle ragioni storico-personali del poeta e della sua poesia, nella genesi storica, nella commutazione e nell’orientamento artistico dell’esperienza totale dello scrittore: non solo programma e meditazione sull’arte, ma coscienza e direzione artistica dell’esperienza totale, senza di cui questa e la vita complessa e concreta del creatore e la sua stessa storicità sarebbero indifferenti (o viceversa prevaricanti) rispetto al suo agire poetico e ai suoi risultati, come la storia di un’epoca sarebbe inutile sfondo alla sua storia letteraria o viceversa pesante limite deterministico alla autenticità e peculiarità dell’esperienza poetica.

E mi preme chiarire ancora due punti. Primo, che l’operazione qui proposta non si limita ad una specie di marcia di avvicinamento alla poesia, alla cittadella misteriosa e astrale della poesia, ma si propone come modo di interpretazione della poesia (non solo delle poetiche, ma della poesia e delle poetiche si fa storia nei modi in cui ciò unicamente si può fare), di storia della sua genesi e della sua affermazione e della sua realtà, risalendo con procedimento complesso, ma unitario ed omogeneo ed organico, sino al margine estremo della sua configurazione finale. Secondo, che questo metodo storico-critico non presume tanto di offrire schemi e chiavi o grimaldelli infallibili e applicabili da chiunque, non presume di imporre un percorso (forse apparso qui piú tortuoso e labirintico di quanto esso è in concreto) seguendo il quale si è fuori dei pericoli denunciati. Si propone invece come una direzione centrale e orientativa valida solo se la si percorre con ispirazione personale e con esercizio concreto, ma non certo senza consapevolezza dei problemi che il lavoro critico impone né senza la discussione con la critica attuale, e con la storia della critica del passato.


1 Si veda in proposito la lucida esposizione di A. Seroni in Studi gramsciani, Roma 1958, pp. 259 e ss. (e invece, per una estremizzazione della politicità della critica, il saggio di G. Petronio nello stesso volume, pp. 223 e ss.).

2 G. Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, Torino 1956, p. 23.

3 Rimando, per questo caso estremo, piú di ignoranza che di tesi, al volumetto di E. Sala Di Felice, L’Arcadia e il Petrarca, Palermo 1959, su cui vedasi la mia scheda, ora in L’Arcadia e il Metastasio, La Nuova Italia, Firenze 1963, 19682.

4 Si veda in proposito il saggio di N. Sapegno, Alfieri politico, «Società», 1949, e poi in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1960.

5 Mi riferisco all’Alfieri di G.A. Levi, Brescia 1950. Per la tesi del contrasto-scissura nei Sepolcri si rinvia al volume foscoliano del Citanna già discusso dal Russo in Problemi di metodo critico, Bari 1929. Per non dir poi delle falsificazioni antistoriche di certi critici cattolici, come appunto il Levi, che alterano tendenziosamente la posizione ideale degli autori ed operano empie conversioni post mortem o che (il caso del Montanari nei confronti del Machiavelli – La poesia del Machiavelli, Roma 1953) svuotano la sostanza di pensiero di uno scrittore nella dubbia esaltazione della sua vocazione di «poeta».

6 Questa linea di sviluppo metastasiano è realizzata nel mio recente saggio metastasiano compreso nel volume L’Arcadia e il Metastasio cit.

7 Rinvio ai miei saggi pariniani raccolti in Preromanticismo italiano cit., in Carducci e altri saggi cit., in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit. (dove si trova anche una recensione del libro di G. Petronio, Parini e l’Illuminismo lombardo, Milano 1960, cui si accenna in questo discorso circa la fase ultima del Parini). Ricordo ora il lungo profilo pariniano in Settecento letterario cit.

8 V. in proposito C. Varese, Pascoli politico, nel volume Pascoli politico, Tasso e altri saggi, Milano 1961.

9 Si veda in proposito il saggio carducciano del Sapegno («Società», 1949, e ora in Ritratto di Manzoni e altri saggi cit.) e, per una fondamentale distinzione, i miei saggi carducciani in Carducci e altri saggi cit.

10 Si veda C. Salinari, Montale dopo la «Bufera», in La questione del realismo, Milano-Firenze 1960.

11 Sul libro del Salinari (Milano 1959) si veda la recensione di R. Scrivano, «La Rassegna della letteratura italiana», 2, 1960, e in Il decadentismo e la critica, Firenze 1963.

12 D. Lajolo, Il vizio assurdo, Milano 1960.